lunedì 31 marzo 2008

storie di guerra


La guerra, le migrazioni, l’accoglienza
La fuga dei minori dalle nazioni in guerra,
itinerari di accoglienza e divulgazione oltre i media.

La “casa di mattoni” comunità di accoglienza per minori è una realtà che opera da circa un anno e mezzo nell’accoglienza di minori cercando di rispondere alle esigenze del territorio in cui è ubicata e ha come piattaforma ideologica il lavoro di comunità e quindi l’interazione con gli attori sociali che popolano il territorio, considerando quest’ultimi parte fondante del lavoro all’interno della struttura stessa.
L’apertura nei confronti del contesto in cui è insediata la CASA non si limita ad utilizzare passivamente le opportunità presenti sul territorio ma mira a generare un rapporto paritario di scambio e di condivisione di saperi ed esperienze attraverso l’attivazione di iniziative all’interno della struttura stessa, partendo dai vissuti e dai bisogni dei ragazzi che costituiscono la CASA.
Proprio dalla convinzione che una struttura d’accoglienza possa essere a tutti gli effetti un attore sociale nel contesto in cui è inserita, alla pari di altri ambiti è quello che ci spinge a sperimentarci corpo a corpo con i nostri ragazzi nell’attivazione di progettualità ed eventi che vanno oltre il nostro mandato di EDUCATORI ma che in realtà è la vera peculiarità che ci trasforma in OPERATORI SOCIALI (ovvero coloro che tentano di generare socialità).
Questo è quello che sappiamo fare, generare spazi di confronto e di discussione sulle tematiche che sono care a noi e ai ragazzi che vivono con noi, proporre momenti di socializzazione e di scambio e non di integrazione ma di disintegrazione delle differenze, di rivendicazione di saperi che sono frutto delle esperienze che le nostre storie raccontano.
Oggi alla casa di mattoni sono presenti diversi ragazzi stranieri e alcuni di questi oltre a portare l’etichetta dell’extra comunitario, ricamata con cura da leggi sempre più restrittive , portano i segni visibili dei conflitti che a noi arrivano solo grazie al fatto che finiscono quotidianamente sulle pagine dei nostri giornali.
La guerra per noi pacifici è solo una derrata predigerita, confezionata e assorbita dal nostro apparato pensante e grazie a questo possiamo immaginare che cos’è, ci possiamo indignare, impegnare ma in realtà confrontandoti poi, con chi la guerra l’ha vista, vissuta e ha evitato di diventare parte del conteggio dei morti o dei mutilati, la percezione cambia e avverti le bugie: avverti la menzogna che muove le pedine del consenso perché umanitaria e così via, fino a spegnere lo strumento di media-zione e cominciare a sporcarti le mani di storie vere, di occhi che non ti guardano mai, di scatti dinnanzi a gesti normali come una pacca sulla spalla e d’un tratto ti accorgi che a questa gente serve tutto tranne che il piombo.
Capisci che spesso la loro vita è una conta tra il piombo e il cassone di un camion, tra i ricatti dei trafficanti di uomini e la clandestinità ad oltranza.
Ci sono bambini che da quanto sono umanitarie le Nostre guerre all’età di dodici anni si incamminano verso l’Europa attraversando da clandestini quattro o cinque nazioni, impiegano due, tre, quattro anni per raggiungere paesi dove sperano di poter vivere “liberi”, pagano mediamente 1000, 2000 dollari a chi li nasconde per passare le frontiere e crescono mentendo e nascondendosi rischiando nel più bello di essere rimpatriati là dove il piombo cade e non ha nessuna intenzione di farla finita.
Noi un po’ di queste storie le viviamo quotidianamente e questo è il primo elemento che ci fa diffidare dai “media” ed è per questo che vi invitiamo a parlare di guerra e migrazione con chi queste cose le ha viste davvero, senza scorte, alberghi pagati e rimborsi spese, vi invitiamo a confrontarvi con chi di guerra ne sa un po’ di più perché non sa cos’è un padre o una madre e al contrario sa benissimo che non esistono guerre umanitarie e ve lo vuole dire : Vi aspettiamo


La “casa di mattoni”

premessa



Sono ormai note agli addetti ai lavori le diverse esperienze di comunità residenziali che utilizzando una classificazione sommaria divergono tra loro, per approccio metodologico e tipologia“d’utenza”.
Le comunità a cui siamo abituati a fare riferimento, quasi sempre, amano distinguersi proprio utilizzando termini che permettono una facile identificazione in merito al soggetto ospitato (minore,psicotico, psichiatrico, cronico, rifugiati politici…) , al sevizio offerto (residenziale, educativa, terapeutica, riabilitativa, semi residenziale….) e in relazione a questa nomenclatura .variano il tipo di relazione , il grado di decisionalità e libertà “dell’utente” nonché il grado di partecipazione attiva alla vita sociale .
Se la nascita di diverse tipologie di accoglienza e di vivere comunitario hanno permesso di potenziare e diversificare gli interventi, implementando competenze tecniche e strumenti operativi, proprio all’interno di ogni singola definizione si nasconde il grosso limite di gran parte di queste realtà che rischiano di diventare sistemi chiusi.
La comunità nasce come esigenza di un servizio, è frutto del sapere tecnico e come mandato ha quello di accogliere e aiutare soggetti svantaggiati; gli attori di questo servizio sono l’equipe tecnica, “l’utente”, nei casi più fortunati la famiglia di provenienza e soggetti più o meno istituzionali come scuole, associazioni, il grosso dello scambio relazionale avviene all’interno di questo ambito, senza dubbio competente, accogliente, curante ma che è tale, in molti casi, solo all’interno di quel setting .
Ttradizionalmente i servizi e gli stessi operatori dedicano maggior parte dei loro sforzi ad aiutare le persone a superare il proprio stato di bisognosi.
Si nota soprattutto l’enfasi su una condizione di mancanza che giustifica in maniera inequivocabile l’intervento tecnico: in altre parole “la deficienza” reale o presunta, costituisce l’ambito d’interesse delle scienze umane applicate.
D’altra parte, l’intervento educativo si fonda ampiamente sull’errore, su ciò che non è adeguato, quindi sulla mancanza.
Non è un caso che alcuni studiosi hanno sottolineato l’esigenza di cambiare il modello concettuale di approccio, adottando un modello definito della competenza, che rende possibile il passaggio della considerazione del disagio alla condizione di salute e di agio.
Nel modello della deficienza, ciò che è normale, ciò che è sano, viene considerato alla stregua di un’appendice del patologico, che è l’unica dimensione che interessa: della salute si vede quello che manca: in questi ambiti sono i problemi a catturare l’attenzione di chi vi opera.
Il rischio più frequente ,quindi, appare quello di costruire una relazione più o meno educativa all’interno di ambiti storicamente competenti dimenticando che la comunità non è altro che la riproduzione di un nucleo pseudo-familiare all’interno di una macrocomunità che a sua volta riproduce in grande scala equilibri, gerarchie e relazioni proprio come all’interno di qualsiasi nucleo familiare.
La macrocomunità, quindi è il terzo fondamentale attore nel raggiungimento degli obiettivi tipici della comunità ed è il soggetto che può generare il vero passaggio da sistema chiuso a sistema aperto incarnando un sistema di relazioni formali ed informali e detentore di un sapere non tecnico che calibra gli eventuali eccessi interpretativi del sapere tecnico.
Le persone e le macrocomunità possiedono infatti capacità e conoscenze che possono essere utilizzate per la soluzione dei problemi, il sapere e il saper fare popolare possono essere recuperati ed è soprattutto con questi mezzi che l’operatore deve confrontarsi poiché entra a far parte di un sistema di relazioni a lui sconosciuto.
La macrocomunità, nel nostro caso “il Paese”, viene riconosciuta dalla comunità educativa come soggetto attore della relazione educativa e non più come bacino d’utenza o una semplice area geografica.
Alla macrocomunità viene riconosciuta una competenza propria che viene implementata attraverso l’azione facilitante dell’operatore che promuove interazioni comunicative per la co-costruzione di informazioni e saperi che come finalità ha quella di attivare comunità competenti.
L’operatore da realizzatore di interventi diventa un attento assistente di processi ponendosi come mediatore e facilitatore di relazioni, non più custode o pseudo-genitore.
Più che di coinvolgimento della macrocomunità è opportuno parlare di vera e propria partecipazione, interazione e cittadinanza attiva.
La comunità come prerogativa ha quella di partecipare attivamente alla vita della macrocomunità utilizzando le risorse e il sapere non tecnico dei soggetti che la costituiscono, entrando a far parete di una relazione di scambio in modo paritario, ovvero questa non si esaurisce utilizzando le opportunità offerte ma si sviluppa generando all’interno della comunità opportunità a favore del benessere collettivo della macrocomunità prestando particolare attenzione al mondo giovanile, alle tematiche sulla famiglia intesa anche come unioni di fatto e nuclei allargati e promovendo attività ed opportunità aperte ai ragazzi della macrocomunità.
si concentrerà inoltre nelle attività che promuovano confronto sulle tematiche care ai nostri ragazzi e alle loro storie, come interventi a favore dell'intercultura e dello scambio tra esperienze come ad esempio migrazioni e guerra.
L’operatore di comunità diventa quindi interterritoriale poiché lavora all’interno della casa sentendosi parte attiva della macrocomunità e con lui gli ospiti che interagendo ed offrendo saperi e opportunità alla stessa: tra gli obiettivi dei loro progetti educativi avranno quello di sviluppare un senso di cittadinanza attiva.
È importante che la casa generi cultura dal momento che si osserva in diverse esperienze di tipo residenziale che nell’immaginario delle persone queste realtà vengono giudicate come luoghi di custodia, protetti ed impenetrabili, ma come abbiamo già citato la casa pur essendo in bilico tra l’istituzione e la non istituzione protende verso la ricostruzione di un nucleo pseudo-familiare e ha l’obbligo di ritagliarsi come famiglia allargata di fatto il suo ruolo da attore sociale.
“Uno degli elementi fondamentali della qualità della vita di un individuo, nel nostro caso dei ragazzi, e della loro capacità contrattuale, è rappresentato dalla misura in cui il proprio stare in un luogo diventa abitare questo luogo ovvero incidere sulle decisioni partecipando alle stesse.
Fra stare e abitare c’è una grande differenza.
Lo stare ha a che fare con una scarsa o nulla proprietà (non solo materiale) dello spazio da parte di un individuo con una anomia o anonimia dello spazio rispetto a quell’individuo che su detto spazio non ha potere decisionale né materiale né simbolico.
L’abitare ha a che fare con un grado sempre più evoluto di proprietà (non solo materiale) dello spazio in cui si vive, un grado di contratualità elevato rispetto all’organizzazione materiale simbolica degli spazi, degli oggetti, alla loro condivisione effettiva con gli altri.”

nuovi itinerari di convivenza



La “casa di mattoni” si è insediata nel piccolo paese di Monteleone di Fermo nel mese di ottobre e oggi mentre scriviamo sono 6 mesi che questa nuova realtà si interfaccia con il contesto in cui vive, percependone gli umori, accogliendo preoccupazioni, entrando in punta di piedi in una relazione di reciproco scambio con la gente e le istituzioni.
I primi mesi di lavoro della nostra equipe si sono concentrati all’esterno di quella che poi sarebbe diventata una casa a tutti gli effetti, ci siamo divisi i compiti e abbiamo lavorato su due livelli per esplorare e conoscere il contesto che ci avrebbe ospitato.
Un gruppo ha effettuato la propria ricerca operando in ambiti formali e l’altro si è concentrato sulla conoscenza di contesti informali.
L’intento è quello di effettuare una piccola mappatura socio-relazionale e di avere ben chiare le opportunità offerte dal territorio, abbiamo quindi incontrato persone che ricoprono cariche o ruoli di leadership formali: amministratori, forze dell’ordine, tecnici dei servizi sociali d’ambito,parroci, e associazioni.
Per quanto ritenessimo importante stabilire un rapporto di collaborazione con gli ambiti sopraccitati, particolare attenzione è stata prestata alla conoscenza di persone in ambiti informali come luoghi di ritrovo, feste e momenti significativi per la vita del paese.
Oltre a frequentare le iniziative del territorio e i luoghi di ritrovo, abbiamo offerto diverse opportunità per far conoscere la nostra casa e presentarci agli abitanti organizzando alcune iniziative rivolte a tutta la cittadinanza.
Non sono mancate le prime collaborazioni con alcune associazioni presenti sul territorio che hanno visto la Casa ospitare piccoli eventi rivolti alla comunità locale.
Queste azioni hanno visto come interlocutori i gruppi di adolescenti del paese che in diverse occasioni hanno interagito con gli operatori e gli “ospiti” della casa, organizzando momenti ludici e collaborando attivamente alla preparazione delle iniziative di cui sopra.
Queste attività pensate e promosse dagli operatori della casa sono servite ad “agganciare” il gruppo di adolescenti e a sondare le prime impressioni riguardo la vita nel paese e percepirne i primi bisogni, per accogliere successivamente le loro richieste e calibrare l’offerta sui bisogni reali che in fondo non sono distanti da quelli degli adolescenti ospiti della casa.
Ancora prima che arrivassero i primi ospiti alcuni dei ragazzi si sono attivati per aiutare gli operatori nella decorazione della casa, lasciando un dono-segno tangibile del desiderio di partecipare attivamente alle vita del paese.
Tuttora alcuni ragazzi frequentano in orari prestabiliti gli spazi comuni della casa e interagiscono con gli operatori e i pari che abitano la stessa, portano giochi , organizzano momenti di gioco e si confrontano con una realtà che sempre meno rischia di essere stigmatizzata ma viene vissuta come un’opportunità di socializzazione e uno spazio di scambio e crescita collettiva.
Dopo la fase di mappatura e di conoscenza preliminare del contesto si sono attivate le prime progettazioni allargate con alcune realtà del territorio come associazioni, servizi per gli adolescenti.
L’équipe ha poi elaborato una serie di strategie per operare all’interno del contesto locale con il e con lo stesso attraverso metodologie e iniziative che andremo presentare nelle pagine successive.
Oggi alla casa di mattoni a distanza di un anno e mezzo sono stati ospitati 17 ragazzi tra minori stranieri non accompagnati, rifugiati provenienti da conflitti bellici in particolare ragazzi afghani, e ragazzi italiani.